L'Aurora, un segno.
“In questo libro troviamo all’opera un «essere sotterraneo», uno che perfora, scava, scalza di sottoterra. Posto che si abbia occhi per un tale lavoro in profondità, lo si vedrà avanzare lentamente, cautamente, delicatamente implacabile, senza che si tradisca troppo la pena che ogni lunga privazione di luce e d’aria comporta; lo si potrebbe dire perfino contento del suo oscuro lavoro. Non sembra forse che una fede gli sia di guida e una consolazione lo compensi? Vuol forse avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto, enigmatico, perché avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora?... Certamente tornerà indietro: non chiedetegli che cosa cerca là sotto, ve lo dirà lui stesso, questo apparente Trofonio ed essere sotterraneo, quando sarà «ridiventato uomo». Si disimpara completamente a tacere, quando si è stati così a lungo, come lui, una talpa”.
È da questa nobile verità nietzschiana che muove la mia riflessione. Non a caso questo aforisma appartiene all’opera con cui Nietzsche si avvia verso quella “guarigione” che viene a coincidere con la sua perfetta maturità: “Aurora” appunto.
Scientificamente l’aurora è il chiarore che precede la nascita del sole. Ma simbolicamente, nel problema complessivo del senso dell’esperienza umana, qual è la sua espressione autentica?
La mia risposta è la seguente: l’aurora è un segno quindi una relazione. Perché possa instaurarsi una relazione segnica (un rimando segnico) bisogna che una qualche qualità sensibile incarnata in un fatto assomigli a un altro fatto, lo faccia per così dire “venire in mente” evocandolo simbolicamente, cioè diventando di fatto un indice della sua presenza significata. Per esempio: le nuvole annunciano la pioggia. L’aurora annuncia la rinascita. Essa dunque appartiene all’esperienza non comune e totale dell’iniziazione. I padri della nostra cultura ne faranno esperienza prima di conseguire l’immortalità. Socrate scenderà al Pireo; Dante negli inferi: viaggio catartico che lo porterà alla visione della verità; Nietzsche sprofonda nell’oscurità della conoscenza metafisica per poi raggiungere la conoscenza autentica.
L’iniziazione è un percorso. A ogni latitudine, in ogni compagine religiosa le iniziazioni hanno un inizio, un ingresso, e poi tappe successive; e una fine: l’uscita. Ricostituito, “nato”, l’iniziato esce: è adulto, compagno di adulti, guerriero.
L’esercizio iniziatico è intrinseco alla nostra natura umana: l’uomo dopo la caduta ne è violentemente scaraventato. Ma ne è conscio? Qual è la via che riporta all’aurora della nostra esistenza? Da qui il paradosso umano: se sulla Terra tutto fosse sensato allora nulla accadrebbe.
Pertanto vorrei illustrarvi un esempio – senza tediarvi – che interessa l’esperienza umana.
Una mattina dell’anno domini 1321 un giovane monaco percorreva, assorto in meditazione e preghiera, il piccolo chiostro del convento di Santa Maria di Ripoll in Catalogna, annesso alla splendida cattedrale. È difficile immaginare un uomo più di lui immerso in un concentrato di innumerevoli segni. Già l’orientamento del chiostro nello spazio, secondo i punti cardinali, evoca l’alternarsi sulle sue pietre delle luci del giorno e della notte, il cammino del sole e della luna, il succedersi delle costellazioni celesti e poi, scolpite sui capitelli del colonnato, ecco ogni genere di figure realistiche o simboliche: uomini, donne, animali, esseri allegorici e mitologici, fiori e piante, angeli e diavoli, mestieri e ordini sociali… una selva di innumerevoli segni che compongono un intricato universo di significati; esso si apre di continuo allo sguardo deambulante del monaco, unitamente alle parole che egli sussurra e borbotta pregando e alzando di quando in quando il capo a rimirare le stazioni del suo cammino circolare. Ogni giorno compie più volte questo percorso, sia in ore stabilite sia no, all’alba e al tramonto, nel pomeriggio e nel cuore della notte, in ogni stagione dell’anno e ogni anno, per molti e molti anni, finché morte non lo arresti.
Cosa vedeva il monaco nelle sue deambulazioni? L’accento posto sulla parola “vedere” non è casuale, poiché noi anzitutto cerchiamo di comprendere le prime radici del “sentire”: l’origine e il costituirsi dei segni primordiali dell’esperienza.
Cercheremo di comprendere cosa il nostro ipotetico fraticello vedeva e come, seguendo le intuizioni e le straordinarie scoperte di Marius Schneider, massimo etnomusicologo del ‘900. Ma intanto si osservi: “l’ipotetico fraticello” è tale solo per noi, perché i frati di quel convento furono e sono assolutamente reali. Non c’è dubbio infatti che in una qualunque mattina del 1321, poniamo nel giorno di San Giovanni, quando la notte eguaglia il giorno, qualche giovane monaco fece e rifece il percorso del chiostro, con il suo corpo vivente, con i suoi pensieri, le sue emozioni e le sue immagini, immerso nel suo mondo. Altrettanto indubbio è che è il nostro vivere qui e ora a rievocare tutto ciò e a farlo rinascere nel proprio mondo, partendo dalla immagine di un chiostro evocata da un libro di Schneider “Pietre che cantano”: vita nostra insieme partecipe di innumerevoli vite altre; sicché la biografia fantastica del monaco di cui parliamo è nel contempo un tratto della nostra reale autobiografia.
Schneider sapeva che il chiostro medievale è un microcosmo, una immagine reduplicata e simbolica del mondo; che la successione delle figure dei capitelli non è casuale, ma allude al percorso del sole e della luna, al succedersi dei giorni, delle settimane e dei mesi dell’anno, seguendo anche i segni zodiacali in cielo e il rincorrersi delle stagioni in terra; e che inoltre le figure registrano spesso le principali feste liturgiche e quelle proprie del singolo monastero, dei suoi santi e martiri protettori. L’orientamento stesso della costruzione del chiostro, il suo collocarsi e dispiegarsi nello spazio e nel tempo del calendario, obbediva a ragioni e a precise scelte simboliche. Ogni monastero, si potrebbe anche dire, è un cordone ombelicale che collega la terra e il cielo. Ne deriva che il cammino circolare del monaco nel chiostro non è una passeggiata a fini di svago ma è un percorso rituale o simbolico, un cammino iniziatico e purificatore: è il nostro viaggio!
Schneider scoprì che gli animali rappresentavano note musicali. Le pietre cantavano, a saperle leggere, melodie precise. Bisogna udirle le cattedrali. Rappresentano l’urlo primordiale, il Verbo creatore, il vagito del cosmo. Le statue sono mute, essendo fatte di materia inerte. Ma non dobbiamo dimenticare che sono copie di esseri viventi, la cui più alta e intensa manifestazione si esprime nella lingua della danza e del canto. L’avvenimento centrale di ogni rituale è acustico: la parola rende efficace l’azione.
Questa raggiunta coscienza è propriamente un’esperienza “filosofica”, una messa in opera del soggetto praticante. Ognuno di noi canta e racconta il mondo a partire dal proprio evento e in base alla prospettiva che lo caratterizza. Questa attitudine è una pedagogia – un percorso formativo appunto – è un’etica che mostra lo stare nel mondo. Ritengo questa l’ intenzione più vera del nostro cammino: si tratta di assumere l’abito nella forma della responsabilità. Se ogni individuo non riesce ad essere un esercizio formativo allora è maschera cattiva che ha fallito il suo scopo.
Con il coraggio che contraddistingue Nietzsche bisognerebbe andare fino in fondo alla questione della nostra verità: ciò che dovremmo proporci è una sostanziale e concreta coerenza di pensiero e di vita ossia non smettere di pensare la verità come un progetto e il senso come un impegno costante rivolto al possibile futuro: per conquistare il nostro mattino, la nostra liberazione, la nostra aurora.
La Rosa pensante
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